Sono nata in un paesetto di provincia, secondogenita di un’impiegata e di un professionista, nel 1960.
Mi ricordo che avevo 4 o 5 anni, feci un viaggio a Roma con mia nonna, per fare una visita in ospedale: un grande e famoso ospedale. Quella visita durò una settimana. Feci molta resistenza, quando vollero farmi l’iniezione per l’anestesia (ben 2 infermieri e mio padre mi tennero ferma). Dopo feci un giro a Roma. A 11 anni stessa solfa, per “un’appendicite” dicevano. Alla fine, dopo aver tolto il catetere vidi che mi mancava qualcosa, là dove usciva la pipì; qualcosa che era cambiata nel tempo. Inoltre dovevo iniziare a prendere una pillola 3 volte al giorno e non dire a nessuno dell’operazione.
In seguito andai altre volte a Roma per visite di controllo dal chirurgo e dal pediatra; ma vedendomi allo specchio, che strano: un’appendicite tirata fuori da una cicatrice di 20 cm nel basso ventre sopra il pube; oramai incominciavo a capire che mi mancava del tutto il clitoride, che prima avevo. Intanto crescevo in altezza, ma con le forme femminili, ancora, solo appena accentuate. Così fino a 26 anni. Fino a 26 anni sapevo di aver subito l’ovariectomia per cisti ovariche: maligne, che avevano cercato di salvare qualcosa (ma era molto difficile che avessero potuto riprendere a funzionare), ma per tutti gli altri era stata una brutta appendicite “perché non avrebbero “capito”. Chiesi se non c’era nient’altro che dovessi sapere o fare. Risposta: NO.
A 26 anni provai ad avere un rapporto sentimentale, ma non fisico: c’era qualcosa che me lo impediva. Cosa non so, ma un dito là mi dava fastidio, anche psichico. Feci la prima visita ginecologica senza la compagnia dei genitori. Ecco la realtà: non avevo la vagina e non mi avevano mai detto la verità, solo “pietose” bugie per loro, per il mio bene. Venne mio padre (vi risparmio la penosa scena tra il melodrammatico e la farsa: ottenuto il mio perdono tutto tornò come prima) ammise che ero stata operata per “pseudoermafroditismo maschile” (diagnosticato già a 4 anni), ma che era stato consigliato di negare sempre e tutto con me, dai “professori” di Roma. Mio padre aveva dovuto sopportare la vergogna e la paura di avere una figlia come me (vergogna se parenti e amici avessero saputo) e di non sapere cosa dire, cosa dirmi. “Professori” che avrebbero dovuto sorvegliare la mia crescita fino alla maggior età e a completare l’opera, ma che si “dimenticarono” di ricordare a mio padre la plastica per realizzare la neo-vagina.
Ormai vivevo per conto mio (ero a 1500 km da casa) e per conto mio ho intrapreso la mia strada per uscirne: con l’aiuto di una psicologa e di un buon ginecologo (con orgoglio posso chiamarli: i miei amici Tiziana e Aristide). Ho lottato e costruito per uscirne. Duramente per 6 anni, poi mi sono rilassata. Ho utilizzato oggetti non costruiti per la creazione di una neo-vagina (dilatatori anali per operati di tumore all’ano prima, “dildo” dopo) ma che hanno lavorato bene, con un’azione costante e, fino a ora, perenne (ora ne ho 46), variando i tempi e le misure.
Ora vivo normalmente la mia vita affettiva e sessuale, anche se non è quella per cui i “professoroni” avevano “operato”. Può sembrare sarcastica o forse rabbiosa questa mia storia, ma è dalla parte offesa che parlo: vi prego, non lasciate all’oscuro la persona amata che è affetta da malattie che rientrano nella sindrome di Morris, ma aiutatela, parlatele chiaramente, senza pregiudizi e datele tutto l’affetto e il sostegno psicologico possibile. NON BUGIE, neanche a fin di bene.
Un abbraccio a tutti Claudia