J. M. Morris, il ginecologo americano che nel 1953 “scoprì” la sindrome che porta il suo nome, affermò: “Non c’è nemmeno bisogno di dire che non sarebbe saggio informare la paziente del reale stato delle cose… ci sembra necessario solo informare che la gravidanza è impossibile”.
Da allora molte cose sono cambiate. Oggi gli interventi clinici, di regola, devono essere giustificati dal consenso informato della persona interessata o di un rappresentante legale. Il diritto di autodeterminazione è riconosciuto come fondamentale nella cura della salute.
E poi oggi c’è Internet che rende disponibili tutte le informazioni a tutti, soprattutto ai giovani. Inoltre molti pazienti ormai adulti hanno testimoniato le ansie, la vergogna, il disagio provato quando, più giovani, si rendevano conto che genitori e medici nascondevano loro qualcosa. Molte relazioni di fiducia sono state rovinate.
Oggi tenere segrete le informazioni alla persona interessata è ritenuto un atteggiamento sbagliato oltre che impossibile. Resta invece aperto il dibattito sui tempi e sui modi delle comunicazioni.
Una comunicazione graduale
La diagnosi di AIS e condizioni simili viene di solito accertata in due particolari momenti: o nei primi mesi di vita (per la comparsa di un’ernia o per la presenza di genitali atipici) o al momento della pubertà (per l’assenza del ciclo mestruale o per la comparsa di fattori inaspettati).
Nel secondo caso è il medico a dare le informazioni sia ai genitori sia alla persona interessata.
Nel primo caso, invece, la comunicazione viene data dai medici ai genitori e sono questi ultimi, man mano che il figlio cresce, a dover spiegare, rispondere alle domande, scegliere il momento giusto, valutare quanto il bambino può capire e voler sapere a ciascuna età.
È ovvio che la comunicazione sarà graduale e dovrà adattarsi alle crescenti capacità del bambino. Inoltre dovrà essere rispettosa delle sue esigenze: non essere reticenti di fronte alle domande, né rovesciare sul bambino comunicazioni che non può o non vuole capire. L’atteggiamento giusto sarebbe quello di dichiarare di essere disponibili a parlare dell’argomento.
Ma in concreto le scelte sono spesso difficili, le persone sono diverse, così come le situazioni, e non è possibile stabilire una formula sempre valida. Per questo è molto utile poter incontrare e parlare con altri genitori che abbiano o abbiano avuto gli stessi problemi.
Comunicare la diagnosi: un mini corso della dott.ssa Charmian Quigley per medici e genitori.
Per approfondire, leggi l’articolo “La comunicazione della diagnosi di DSD, una porta che si apre” del dott. Franco D’Alberton e visita la pagina Aspetti psicologici.